SAUCHA O PURIFICAZIONE - YAMA E NIYAMA V
di Paolo Quircio
Dopo aver esposto con chiarezza le cinque abitudini e attitudini da evitare affinché la Sadhana possa dare i risultati auspicati, Patanjali Maharishi prosegue il suo percorso didattico spiegando le cinque che invece vanno coltivate e messe in atto, i cinque Niyama. Essi sono: Saucha, Santosha, Tapas, Swadyaya, Ishvara-Pranidhana. Vedremo in seguito il significato di ognuno di essi. Come precedentemente detto riguardo agli Yama, anche i Niyama costituiscono delle regole di comportamento che hanno come effetto la purificazione dell’individuo e lo rendono pronto alla pratica yogica più avanzata.
Forse può essere utile ricordare il senso della parola ‘puro’, soprattutto quando è applicata alla pratica delle discipline spirituali. ‘Puro’ vuol dire non alterato, composto esclusivamente dall’essenza primaria, senza modificazioni né aggiunte. La ricerca della purezza, quindi, è un atto di separazione, di separazione del non essenziale dall’essenziale. Come per rendere pura l’acqua dobbiamo filtrarla ed eliminare tutte le sostanze estranee in essa disciolte, così Yama e Niyama sono i filtri che separano le impurità aggiunte alla nostra essenza divina, operando quindi la separazione dell’Atman dai suoi aggregati limitanti, le Upadhi, il complesso corpo-prana-mente.
Come detto più volte, è un lavoro tutt’altro che facile, ma le alternative sono poche; se lo Yoga non è l’unico modo per arrivare ad un reale sviluppo spirituale, è sicuramente uno dei più efficaci. Per agire avendo in mente il raggiungimento della purezza occorre individuare i fattori inquinanti, prendere coscienza della loro natura intrinsecamente impura, estranea all’essenza primaria, e cominciare a distaccarsene attraverso Viveka, la discriminazione, che ci permette di distinguere tra reale e non-reale, e quindi Vairagya, il distacco, che ci rende testimoni di ciò che accade nel mondo di Prakriti, la natura sensibile, senza prendere parte ad esso, se non per lo stretto indispensabile, e comunque con la consapevolezza di ciò che è.
Nello Jnana Yoga, lo Yoga della conoscenza, esiste un percorso molto simile, detto Neti-Neti, che vuol dire ‘né questo-né questo’. Essendo parte dello Jnana Yoga è ovviamente un percorso tutto intellettuale e consiste nell’analizzare ciò che ci circonda e ciò che è dentro di noi; ponendosi davanti alle manifestazioni della Natura, ci si chiede se ognuna di esse è il Brahman, eterno, non nato ed immutabile. Si eliminano via via tutte le cose soggette a mutazione, corpo, mente ecc., restringendo sempre più il campo d’indagine, per arrivare infine all’Atman, l’essenza divina dell’essere umano, identica al Brahman, e ugualmente eterna ed immutabile.
Se negli Yama l’attenzione era rivolta principalmente alle azioni da evitare, in quanto manifestazioni dell’Io e dei cinque Klesha, e pertanto fonte di dolore e ostacoli alla Sadhana, nei Niyama l’attenzione è posta soprattutto sulle cose da fare, per completare il percorso di purificazione e sgrossamento in maniera attiva.
Il primo di essi è Saucha, o Shaucha, la pulizia. Tra i dieci Yama e Niyama, Saucha è l’unico a cui Patanjali dedica non uno ma due sutra, il 40 e il 41. Il primo recita: “Dalla pulizia nasce l’indifferenza verso il corpo e il non attaccamento verso gli altri”, l’altro, “Con la pratica della purezza mentale ci si rende pronti al buonumore, alla concentrazione su un unico punto, al controllo dei sensi e alla visione del Sé.” Quindi, innanzitutto la pulizia del corpo, sia esterna che interna, e poi quella della mente. La pulizia esterna del corpo consiste, come è ovvio, nelle pratiche di igiene personale. Il corpo fisico è il veicolo che l’Atman utilizza per compiere il suo percorso karmico e va tenuto sempre nella massima efficienza e presentabilità; va rispettato in quanto, pur se solo temporaneamente, sede dell’Atman.
Nel suo bel commentario a Patanjali, Swami Bhaskarananda osserva che la pratica della pulizia personale serve anche a farci capire come il corpo, per quanto si faccia per tenerlo pulito, quasi subito si sporca di nuovo. Sudore, escrezioni, contatti di vario genere lo sporcano in continuazione, e questa inevitabile tendenza a sporcarsi ci dovrebbe far capire la natura di per sé impura del corpo stesso. E non solo del nostro, ma anche di quelli delle altre persone. Questa consapevolezza dell’intrinseca mancanza di purezza del corpo ha come conseguenza un atteggiamento sempre più distaccato nei confronti di tutti i piaceri derivanti dal corpo stesso, quindi dei sensi e della mente, che fanno sempre parte di Prakriti, la natura sensibile. Il fatto che il corpo tenda sempre a risporcarsi, non vuol dire che le pratiche di pulizia siano superflue, anzi, è un motivo di più perché esse siano assidue ed accurate.
Per pulizia interna intendiamo ciò che immettiamo nel nostro corpo; ciò che mangiamo, beviamo o inaliamo. Non basta che i cibi siano preparati in maniera igienica, essi devono avere anche alcune caratteristiche sottili, oltre a dover rispondere a requisiti etici ed energetici di grande importanza. In precedenza abbiamo parlato dei Kosha, i cinque involucri che costituiscono il Jivatman, la persona. Il primo, il più grossolano, è l’Annamayakosha, l’involucro del cibo, e costituisce il corpo fisico. Le cellule del corpo muoiono in continuazione e si riformano grazie al cibo che mangiamo. Siamo ciò che mangiamo, si dice, a livello fisico e non solo. È quindi di primaria importanza che questo involucro, questo veicolo, sia il più possibile costituito da Sattva, la più leggera e luminosa delle qualità, dei tre Guna. Nella Bhagavad Gita Krishna spiega ad Arjuna l’essenza dei tre Guna e il modo in cui essi si manifestano in ogni aspetto del Creato.
Tra questi vari aspetti c’è anche il cibo, che così viene classificato: “Di tre specie è anche il cibo (…) Ascolta questa distinzione. I cibi puri che accrescono la longevità, la vitalità, la forza, la salute, la felicità sono saporiti, nutrienti, gradevoli, questi sono i preferiti dai Sattva. I cibi amari, acidi e salati; i cibi eccessivamente caldi, piccanti, aspri, che bruciano e causano dolore, sofferenza e indigestione, questi sono i preferiti dai Rajas. I cibi stantii e privi di sapore, i cibi guasti e gli avanzi, i cibi impuri, questi sono i preferiti dai Tamas.” B.G. XVII, 7-10.
È facile mettere in pratica queste indicazioni; i cibi puri sono quelli leggeri ma nutrienti, che non derivano da violenza, di sapore gradevole ma non eccessivamente stimolante. I cibi eccessivamente pesanti e saporiti, compresi quelli inebrianti, sono Rajas, e quindi inducono ad un eccesso di attività; i cibi morti, in via di putrefazione, derivanti dalla violenza, sono Tamas, e inducono indolenza e staticità.
Ma Krishna avverte anche che “… lo yoga, o Arjuna, non è per chi mangia troppo, né per chi mangia troppo poco, non è per chi dorme troppo, né per chi dorme troppo poco.” B.G. VI, 16. Quindi non solo la qualità di ciò che mangiamo, ma anche la quantità è importante. Mangiare cibo sano, Sattva, in quantità eccessiva o eccessivamente ridotta rende quello stesso cibo rispettivamente Rajas o Tamas. Nello Yoga il ‘giusto mezzo’ o ‘via di mezzo’ viene riconosciuto come la via migliore, così come hanno fatto in seguito Aristotele, Buddha, Confucio e tanti altri Saggi.
Patanjali ci dice che Sattvaśuddhi, la purezza interiore, mentale, contribuisce a conferire al praticante alcune grandi qualità, che si riveleranno poi indispensabili per proseguire nella Sadhana. Esse sono il buonumore, la concentrazione su un unico punto, Ekagrata, il controllo dei sensi e infine la visione del Sé o dell’Atman, Atmadarshana. Il conseguimento del buonumore è ovvia conseguenza dell’elevazione spirituale e del conseguente distacco che la persona spiritualmente evoluta ha nei confronti delle ambasce del vivere quotidiano. Quelle che all’occhio della persona comune appaiono come una serie di piccoli e grandi drammi, per lo Yogi non sono che Maya, un’irrealtà che appare reale, e di Avidya, l’ignoranza spirituale che ci fa immaginare una realtà che non esiste.
Per meglio capire la differenza tra Maya e Avidya facciamo un esempio molto usato nello Yoga, quello della corda e del serpente. Un uomo cammina su un sentiero di campagna di sera, al buio. Vede qualcosa davanti a lui che gli sembra un serpente, e si spaventa. Poi arriva qualcuno con una lampada e quello che sembrava un pericoloso serpente si rivela essere solo un’innocua corda. Il buio della notte simboleggia Maya, che non ci fa vedere la corda per quella che è, e che può essere eliminata solo dalla luce della conoscenza, mentre il serpente, che non esiste né è mai esistito, è esclusivamente una creazione della nostra immaginazione, una proiezione della nostra mente costantemente afflitta dalla paura.
Quindi, per tornare al buonumore, è chiaro che chi ha una visione della vita pratica come qualcosa di momentaneo, di superficiale, appena meno irreale di un sogno, che per quanto vero ci possa sembrare, svela tutta la sua infondatezza al momento del risveglio, non potrà prendere sul serio questi avvenimenti. Una tragedia vista al teatro o al cinema ci potrà coinvolgere per un po’, ma poi, sapendo che gli attori che sulla scena sembravano soffrire e morire in realtà stanno benissimo, questa sensazione ci abbandonerà presto. Così è la vita per l’uomo evoluto, per lo Yogi; è tutto un gioco, Lila, che copre la realtà profonda, l’unica vera realtà, Sat, l’essenza divina dell’uomo.
Troviamo poi, già anticipati, gli ultimi tre Anga: Pratyahara, il controllo dei sensi, Dharana, la concentrazione, e addirittura Samadhi, la trance estatica, la presa di coscienza dell’unione dell’Atman con il Brahman. Tutte pratiche che diventano possibili soltanto dopo aver purificato la mente che, altrimenti, gravata da una gran quantità di inutili attributi, non riesce ad elevarsi e a travalicare se stessa. È utile ricordare che lo Yoga è sì una dottrina altamente filosofica, ma è soprattutto una scienza pratica. È facile, ma anche inutile, discutere di elevatissime questioni teoriche che poi restano lì, inutilizzate.
Lo Yoga è essenzialmente pratico, il suo scopo è di portare il praticante al Samadhi, e per farlo egli deve usare gli strumenti di cui dispone: corpo, respiro, sensi, mente e intelletto. In quell’inesauribile fonte di conoscenza spirituale e saggezza che è la Bhagavad Gita, Krishna spiega ad Arjuna che: “Per purificare l’ego, gli Yogi dell’azione agiscono con il corpo, con la mente, con l’intelletto superiore o anche solo con i sensi, abbandonando ogni attaccamento.” B.G. V, 11.
Ognuno di questi elementi viene preso in considerazione dallo Yoga, in particolare dal Raja Yoga. Con le varie pratiche previste da ciascuno degli otto anga, le otto parti che lo compongono, viene portata al massimo la consapevolezza di ognuna di queste componenti, perché possa poi essere superata. Per conseguire questa consapevolezza è assolutamente indispensabile separare ogni aggregato non indispensabile dalla componente stessa. Quello che per il corpo fisico può essere una qualsiasi sporcizia materiale, per la mente sono i pensieri negativi, le paure, l’odio e così via.
Lo stesso Patanjali anticipa questo concetto nel primo Pada, spiegando che le impurità della mente possono essere corrette meditando sui concetti opposti: “La mente diviene pura coltivando l’amicizia, la gentilezza e l’indifferenza verso felicità, vizio e virtù.” Y.S. I, 33. Soltanto separando l’essenza di ogni componente da ciò che la inquina, potremo prenderne coscienza. Solo dopo aver pulito uno specchio coperto da uno spesso strato di sporcizia, potremo vedere l’immagine in esso riflessa. Infine, dopo questo processo di eliminazione e consapevolezza, potremo via via separare le Upadhi, gli attributi che circoscrivono l’Atman, limitandolo, dall’Atman stesso.
Sempre nella Gita, nel capitolo seguente, Krishna aggiunge: “Abbandonando interamente i desideri che nascono dall’immaginazione, controllando tutti i sensi con la mente e fermando la mente stessa sul Sé, sotto la guida di un intelletto risoluto e costante, lo Yogi deve gradualmente abbandonare ogni attività e astenersi da ogni genere di pensiero.” VI, 24-25. Vorrei soffermarmi brevemente su due aspetti che emergono da questi due sloka: uno è ‘l’intelletto risoluto e costante’.
Nessun percorso potrà mai arrivare a buon fine e dare i risultati auspicati senza la ferma volontà di giungere alla meta e senza che questa volontà si trasformi in una pratica assidua e diligente. In quanto all’abbandono di ogni attività, nella Gita si parla spesso dell’impossibilità di non agire. Ma Krishna spiega anche che: “ Colui che pratica lo Yoga, che ha l’ego purificato, che domina i sensi, che è padrone di sé e il cui Atman si è espanso in tutti gli esseri, anche se agisce, dall’azione non è contaminato. L’adepto dello Yoga che conosce la verità, pensa: ‘io non sto compiendo alcuna azione’, mentre vede, ascolta, tocca, odora, mangia, cammina, dorme, respira. Mentre parla, getta via, afferra, apre e chiude gli occhi, egli sa che sono soltanto i sensi che agiscono sugli oggetti della percezione. Come le foglie del loto non sono toccate dall’acqua, così colui che, trasceso l’attaccamento, agisce rivolgendo le sue azioni al Brahman non si identifica con esse.” B.G. V, 7-11
Vediamo quindi come il concetto di purezza, di separazione dell’essenza da ciò che essenza non è, di Sat da Asat, di Atman da Anatman, ma anche di Dharma da Adharma, è un concetto cardine intorno a cui ruota l’intera dottrina dello Yoga, oltre a quelle del Samkhya e del Vedanta.
Citando ancora una volta la Bhagavad Gita: “Così, libero da ogni impurità, costantemente proteso alla comunione spirituale, ben presto lo Yogi realizza l’infinita beatitudine del costante contatto con Brahman.” B.G. VI, 28.
Paolo Quircio
Roma. 10-06-2018
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