di Paolo Quircio
L’universo culturale indiano, e quello induista in particolare, hanno un modo di esprimersi, di tramandare le conoscenze e di insegnarle molto diverso da quello occidentale. Nel nostro sistema, di solito, per spiegare qualcosa si enuncia una tesi, la si amplia e si presentano i vari argomenti a sostegno della tesi stessa. Un sistema lineare e molto chiaro, estremamente funzionale sia per le cose pratiche, sia per quelle teoriche, filosofiche.
Il sistema indiano ha invece un approccio dai tempi forse più lunghi, affabulatorio, che la prende da lontano, ma che porta al punto essenziale attraverso racconti e analogie spesso molto pittoreschi e favolistici, apparentemente ingenui, quasi infantili. Ma, a ben guardare, queste favole esotiche sono intessute di simboli di sorprendente profondità. Insegnando per racconti e per simboli, con la stessa storia si possono raggiungere eccellenti risultati pedagogici con ogni tipo di pubblico. I più semplici saranno attratti dalle gesta degli eroi, dai giochi amorosi di Krishna e delle
Gopi o dai prodigi operati dai
Rishi e dai
Deva; il ricercatore che è più avanti nel suo percorso spirituale avrà la capacità di vedere in quei simboli gli insegnamenti profondi delle Scritture; coloro che hanno già raggiunto un livello spirituale ancora più elevato sapranno avanzare ulteriormente, cogliendo in quei racconti e in quella simbologia l’espressione diretta dell’energia divina con cui, tramite il racconto simbolico, si immedesimeranno. Un solo insegnamento, ma dalle mille sfaccettature, valido dalla prima elementare alla laurea, e anche oltre.
Naturalmente anche le raffigurazioni dei Deva, le divinità induiste, sono arricchite da molti simboli che ne chiariscono meglio la natura. La proboscide di Ganesh è simbolo di duttilità e adattabilità: è abbastanza forte per sollevare un grosso tronco, ma è al contempo abbastanza sensibile per raccogliere un chicco di riso. Le orecchie grandi sono fatte per ascoltare e imparare, gli occhi piccoli danno il senso della concentrazione. L’immenso serpente su cui dorme Vishnu nella pausa tra
Pralaya, la fine di un ciclo cosmico, e la creazione di un nuovo universo, è avvolto in tre spire e mezzo, come la
Kundalini, l’energia che allo stato dormiente è localizzata alla base della colonna vertebrale, avvolta appunto in tre spire e mezzo. Gli spunta un fiore di loto dall’ombelico, dal
Manipura Chakra, che è il punto di passaggio tra i
Chakra bassi, legati alla Natura fisica, e quelli alti, legati alla Natura superiore. Il loto a sua volta rappresenta il percorso dell’uomo: ha le radici nel fango, lo stelo nell’acqua e il fiore riceve la luce del sole. Seduto in questo fiore di loto troviamo Brahma, il dio della Creazione, Creazione che è proprio l’unione della
Prakriti, la Natura, inferiore con quella superiore.
Nell’ultima newsletter è stato pubblicato un capitolo di un libro di Swami Sivananda che parla di
Dattatreya e dei suoi 24 Maestri. Come abbiamo visto, Dattatreya nacque in maniera prodigiosa come incarnazione delle tre divinità fondamentali dell’Induismo: Brahma, il creatore, Vishnu, il preservatore, e Siva, il distruttore, e per questo è detto
Trimurti Avatara, incarnazione dei tre dei. Da questo il suo nome: Datta vuol dire ‘dono’ e Treya si riferisce al padre umano Atri. Poiché i tre ‘padri’ di Dattatreya sono contornati nelle loro raffigurazioni da numerosi simboli, il loro
Avatar ne mantiene alcuni di ognuno dei tre, a cui si aggiungono altri specificamente suoi.
Abbiamo visto che, proprio a sottolineare la triplice origine, Dattatreya, spesso detto anche Datta Guru, ha tre teste e sei braccia. Delle tre teste una, quella che si riferisce a Siva, è sovrastata dalla falce di luna e da essa sgorga il fiume sacro, il Gange. A causa della sua ciclicità, la luna è considerata il simbolo del tempo, ma poiché il tempo appartiene agli dei e non viceversa, essa non è parte di Siva, ma ne è solo un ornamento. Siva è inoltre il dio che presiede alla fine dei cicli cosmici perché se ne preparino di nuovi, ed è pertanto padrone assoluto del tempo. Un altro significato della mezzaluna, che in effetti è meno di mezza, ma è ciò che ci appare di essa nel quinto giorno del ciclo lunare, è la mente. Siva è raffigurato in costante meditazione, quindi con la mente ferma, ma quella sottile striscia rappresenta lo stato vigile, sempre allerta di colui che medita profondamente.
Il Gange che sgorga dalla testa del Deva è legato ad una leggenda secondo la quale l’oceano era stato prosciugato dal Rishi Agastya perché nel suo fondale si nascondeva un esercito di 60.000
Asura, demoni, tutti fratelli tra loro. Dopo che i 60.000
Asura furono ridotti in cenere dal saggio Kapila, Bhagiratha, un re saggio e buono, loro discendente, chiese alla dea Ganga di fornire l’acqua per poter compiere i riti funebri necessari alla liberazione delle loro anime. Dopo pressanti richieste la dea accondiscese, ma lo avvertì che la quantità d’acqua era immensa e precipitando avrebbe distrutto la Terra. Allora Bhagirata chiese a Siva di far cadere l’acqua sulla sua testa prima che sulla Terra, per diminuire la forza dell’impatto, e anche Siva accondiscese alle sue richieste. Per questo il primo tratto del Gange si chiama ancora oggi Bhagirathi. L’abituale deambulazione che i fedeli compiono più volte in senso orario intorno al sancta sanctorum dei templi induisti, solo in quelli dedicati a Siva viene interrotta per non ‘oltrepassare’ il Gange, e completata in senso inverso. L’acqua del Gange è considerata simbolo di purezza e, sgorgando dalla testa, anche di conoscenza e saggezza.
Nelle sei mani Dattatreya impugna alcuni dei simboli della Trimurti. Nelle prime due dall’alto i simboli di Vishnu:
Shanka, la conchiglia, e
Chakra, il disco. La conchiglia, che viene tuttora usata nei templi indiani come una tromba per richiamare i fedeli e dare inizio alle
Puja, le funzioni sacre, è quella di una chiocciola marina dell’Oceano Indiano, la
Turbinella pyrum. La stessa conchiglia con cui si dà agli eserciti del Mahabharata il segnale d’inizio della battaglia. In essa si uniscono i tre suoni che compongono la sacra sillaba OM: A, U e M. I tre suoni rappresentano alcune delle triadi dello Yoga e del Vedanta: passato, presente e futuro; i tre stati di coscienza:
jagrat, veglia,
svapna, sogno e
sushupti, sonno profondo; i tre
Guna, le qualità:
Tamas,
Rajas e
Sattva; i tre
Loka, i piani di esistenza, la formula che precede il
Gayatri Mantra:
Bhur, il
Bhu-Loka (piano fisico),
Bhuvah, l’
Antariksha-Loka (piano astrale) e
Svah, lo
Svarga-Loka (piano celeste); Creazione, Preservazione e Distruzione, e quindi Brahma, Vishnu e Siva;
Sthula Sharira, il corpo grossolano,
Sukshma Sharira, il corpo sottile e
Karana Sharira, quello causale. Tutte queste triplici componenti si uniscono nella conchiglia e danno luogo a OM, il Mantra universale, il suono sottile che dà origine alla Creazione e di cui vibra il cosmo intero.
Il disco,
Chakra, per la sua forma circolare non ha inizio né fine, quindi rappresenta il tempo, di cui, come già detto, gli dei sono padroni, ma è anche un’arma che viene lanciata per decapitare i demoni. Qui si rende necessario aprire una piccola parentesi. Tutte le armi da taglio impugnate da eroi mitologici e Deva, l’ascia di Parasurama e di Ganesh, la spada di Kali, gli archi di Rama e di suo fratello Lakshman, il
Chakra di Vishnu, simboleggiano
Viveka, la discriminazione, la capacità di separare il reale (Atman) dall’irreale (Anatman), e
Vairagya, il distacco, inteso come consapevolezza del fatto che mentre il nostro corpo e la nostra mente agiscono nel mondo, il nostro Atman rimane immutato e immobile. Nella Bhagavad Gita (V, 10) Krishna spiega il significato di
Vairagya:
“Come le foglie del loto non sono toccate dall’acqua, così colui che, trasceso l’attaccamento, agisce rivolgendo le sue azioni a Brahma non si identifica con esse”. Sempre nella Gita (XV, 3-4) l’universo sensibile viene paragonato ad un albero baniano (
ficus bengalensis) e Krishna dice ad Arjuna: “Avendo reciso questo albero di baniano dalle salde radici con la forte scure del non attaccamento/ Allora dovrebbe essere cercata quella meta, conseguita la quale nessuno ritorna di nuovo.” Chiaramente la meta di cui parla Krishna è
Moksha, la liberazione dal ciclo di nascite e morti. Bisogna anche aggiungere che i demoni non sono entità esterne, ma sono le energie negative che ci controllano e che ci tengono lontani dal nostro progresso spirituale.
Le mani di mezzo impugnano due dei simboli di Siva: il
Trishul, il tridente, e il
Damru, il tamburello. Il tridente simboleggia tutte le triadi di cui abbiamo già parlato poco sopra, ma non solo. Simboleggia anche le tre
Nadi, i canali dove scorre il P
rana, principali:
Ida, a sinistra della colonna vertebrale, che rappresenta il mondo materiale;
Pingala, a destra, simbolo del mondo spirituale, e
Sushumna, al centro del midollo spinale, in cui le due energie opposte trovano il loro equilibrio, equilibrio necessario per proseguire nel proprio cammino spirituale e che fa parte dell’insegnamento di Dattatreya. Le tre
Nadi convergono nell’
Ajna Chakra, localizzato tra le sopracciglia, e la sola
Sushumna prosegue fino all’ultimo
Chakra, il
Sahasrara, posto alla sommità del capo. Il
Trishul è inoltre l’arma che Siva usa per distruggere il mondo intero al momento della fine del ciclo cosmico.
Il
Damru è un doppio tamburello a forma di clessidra, con due perline di legno legate con delle cordicelle, per cui, girandolo da una parte e dall’altra, le perline percuotono le pelli e lo fanno rullare. Anch’esso ha più significati simbolici. I due coni contrapposti significano il mondo manifesto e quello non manifesto, ma anche il principio maschile e quello femminile, dalla cui unione ha origine la creazione e dalla cui separazione ha inizio
Pralaya, la fine del ciclo cosmico. In Tibet a volte il
Damru veniva fatto unendo due calotte craniche, una di un uomo e una di una donna. Al suono del
Damru Siva, nella sua forma di Nataraja, il re della danza, esegue la
Tandava, la danza in cui egli, che è il dio della meditazione, raggiunge lo stato di pura estasi mistica.
Nelle mani più in basso troviamo il
Mala e il
Kamandalu. Il primo è il rosario di 108 grani che viene solitamente usato per recitare il
Japa, la ripetizione dei
Mantra, e aiuta chi medita a tenere il conto. Più o meno lo stesso uso del Rosario cristiano nelle preghiere. I grani possono essere di diversi materiali: il legno di
Tulsi, una varietà indiana di basilico considerata sacra; a volte di legno di sandalo, di semi di loto o di cristallo di rocca. Ma i più diffusi sono i
Rudraksha, i semi di una pianta locale, l’
elaeocarpus ganitrus. Ovviamente, anche sulla
Rudraksha esiste una storia mitologica. Si dice che Siva, dopo una lunghissima meditazione aprì gli occhi che, essendo stati chiusi per tanto tempo, lacrimarono. Da queste lacrime nacquero i
Rudraksha, che vuol dire ‘lacrime di Rudra’, uno dei nomi di Siva.
Il
Mala, come detto, ha 108 grani, più uno, detto il Monte Meru, un monte mitologico, o anche il grano del Guru. Sul perché di questo numero, 108, che peraltro troviamo spesso nell’Induismo e nel Buddhismo, ci sono parecchie risposte: sul
Chakra del cuore, l’
Anahata, convergono 108
Nadi; i
Devanagari, le lettere dell’alfabeto sanscrito, sono 54 e ognuna ha un suo doppio, maschile e femminile; nello
Sri Yantra, uno dei più importanti e diffusi, ci sono 54
Marma, intersezioni, e anch’esse hanno un doppio, maschile e femminile; 12 segni zodiacali x nove pianeti ecc. ecc. Anche il
Mala, avendo una forma circolare, rappresenta la ciclicità del tempo. C’è una frase bellissima di Swami Sivananda che paragona i grani del
Mala alle pietre miliari lungo la strada: il cammino si può fare anche senza di esse, ma ti aiutano ad essere consapevole della strada percorsa. Anche il filo che tiene insieme le perline ha un suo significato simbolico, che ci viene direttamente dalla voce di Krishna, dalla Gita (VII, 7): “O conquistare della ricchezza (Arjuna), non vi è nulla che mi sia superiore.
Come il filo tiene insieme le perle, così io tengo insieme tutti gli esseri.” Un ultimo dettaglio sul
Mala è il modo in cui Dattatreya lo impugna. In alcune immagini lo fa semplicemente ciondolare tra le dita della mano rivolta verso il basso; in altre immagini pende dal pollice della mano destra in
Abhaya Mudra, il cui significato è ‘Non temere’. Buddha è spesso raffigurato in questa posizione e il significato è sempre lo stesso: chi segue i miei insegnamenti non ha più nulla da temere, non solo perché non gli succederà niente di male, ma soprattutto perché ha gli strumenti spirituali per reagire all’eventuale male senza perdere la sua serenità e il suo equilibrio.
L’ultimo oggetto nelle mani di Dattatreya è il
Kamandalu, il piccolo vaso per l’acqua che gli eremiti portano sempre con sé, oltre alla ciotola con cui chiedono l’elemosina. L’acqua è al contempo l’elemento vivificante per eccellenza e simbolo di purezza. Come essa dà vita ed elimina le impurità d’ogni genere, così l’insegnamento di Dattatreya infonde nel ricercatore spirituale, nel suo discepolo, nuova linfa vitale e lo aiuta a liberarsi del pesante fardello delle sue impurità spirituali.
Infine i simboli propri di Datta Guru: i quattro cani di diversi colori, l’albero
Kalpavriksha e la mucca bianca. I quattro cani rappresentano i quattro Veda: Rig, Yajur, Sama e Atharva. I Veda sono le quattro raccolte di Scritture Sacre più importanti dell’India. La loro autorità spirituale viene accettata da quasi tutte le sei Darshana, le scuole filosofiche tradizionali. La parola
Veda deriva dalla radice sanscrita ‘
Vid’, che vuol dire ‘sapere’. Sono quindi considerati il sapere per eccellenza, e costituiscono il corpo fondamentale dei testi detti ‘
Sruti’, ‘ciò che è stato sentito’. Testi che si basano su conoscenze acquisite dagli antichi
Rishi, saggi veggenti, durante la meditazione profonda. Scritti sotto dettatura, per così dire, ricchissimi di istruzioni e insegnamenti su tutto quello che riguarda la vita spirituale, dall’aspetto più filosofico ed esoterico a quello formale dei riti e delle cerimonie sacre.
Ma perché per rappresentare qualcosa di così sacro come i Veda vengono usati proprio i cani? Perché il cane ha un udito molto più sviluppato dell’uomo. Il cane sente suoni che noi non riusciamo a percepire, suoni sottili. Così lo studente spirituale deve innanzitutto imparare ad ascoltare più che a parlare, e poi ad affinare il proprio udito interiore e spirituale, fino a percepire il pieno significato del suono più sottile di tutti: il silenzio. Si ricordi che il nome del
Chakra del cuore è
Anahata, che vuol dire ‘suono non causato, non percosso’, un suono talmente sottile che si avvicina molto al silenzio; anche la vibrazione prima da cui nasce la Creazione, lo
Shabda Brahman, è un suono-non suono, una vibrazione così sottile che, pur dando vita all’universo intero, è ancora allo stato potenziale.
I cani hanno anche altri significati simbolici: i quattro
Yuga, i cicli cosmici; i quattro stati dell’esistenza: Esistenza, Consapevolezza, Pensiero, Parola o Azione; le quattro suddivisioni del suono:
Para, che si manifesta nel
Prana,
Paasyanti, che si manifesta nella mente,
Madhyama, che si manifesta negli
Indriya, gli organi di senso e di azione e
Vaikhari, che si manifesta sotto forma di suono articolato, la parola.
Infine l’albero e la mucca bianca. Sia l’albero
Kalpavriksha che la mucca
Kamadhenu sono arrivati nel mondo dalla
Samudra Manthan, la zangolatura dell’oceano del latte
[1]. Nel mito il tipo di albero non viene definito, chi dice che sia un baniano, chi una palma da cocco o altro. Si trova spesso nell’iconografia indiana, anche Adi Shankaracharya, il fondatore della scuola Advaita, è spesso raffigurato in meditazione sotto alla chioma dell’albero
Kalpavriksha. La cosa che conta è che è un albero che soddisfa tutti i desideri; naturalmente i desideri di un uomo che sta percorrendo una via spirituale molto avanzata, quindi soprattutto il desiderio di raggiungere l’illuminazione e di liberarsi dal
Samsara, il ciclo di nascite e morti.
Anche la mucca bianca è spesso presente nelle immagini sacre. È il simbolo femminile dell’abbondanza, della fertilità, della mansuetudine;
Matrika, dea madre, amorevole come lo è la Terra con noi, che pure le manchiamo di rispetto in continuazione, e continua a sostenerci e a nutrirci.
Questa analisi del simbolismo legato a Datta Guru vuole essere soprattutto una ricerca volta alla comprensione di tutto ciò che abbiamo costantemente davanti agli occhi e di cui non riusciamo a vedere il significato, né a coglierne l’insegnamento. Nulla è casuale, tantomeno i simboli sacri, argomento su cui hanno scritto diffusamente tantissimi intellettuali, da Guenon a Mircea Eliade e tanti altri. Spesso ci comportiamo come quando cerchiamo gli occhiali per tutta casa e alla fine ci accorgiamo di averli sul naso……
INNO A DATTATREYA |
Sarva Aparaadha Naashaaya
Sarva Paapa Haraaya Cha
Deva Devaaya Devaaya
Sri Dattatreya Namosthuthe
Mi inchino davanti a Colui che annienta il Karma,
Colui che distrugge tutti i peccati
Mi inchino davanti al Dio di tutti gli Dei
Mi inchino davanti allo Sri Guru Dattatreya!” |