RICEVERE IL DONO DELL'ALTRO
di Luciano Manicardi
Cosa significa comunità, communitas? L’etimologia della parola communitas contiene in sé il termine munus. Munus ha due significati: da un lato è il dovere, l’obbligo, il compito, dall’altro è il dono che si deve fare, non quello che si riceve. Munus è il dono che si dà, è il dono da dare, è l’evento di una donazione. Coloro che cercano di fare una vita comune vivono l’obbligo del dono, la legge del dono che non significa tanto donare qualcosa quanto arrivare a uscire da sé per donare se stessi. [...]
La comunità è l’insieme delle persone unite non tanto da un possesso, da un di più, da una proprietà ma da un di meno, da questo debito. Sono coloro che riconoscono il debito della carità e dell’amore verso l’altro. Questo dovrebbe caratterizzare la vita comune sotto il segno della gratuità e dell’azione di grazie. Io credo che una delle cose più belle che ho imparato a vivere nella mia comunità è rendere grazie per la comunità che posso vivere, per la comunione sempre limitata, per la carità spesso contraddetta, rendere grazie per le persone con cui vivo, entrare in un’ottica di gratuità e di rendimento di grazie. Chiunque di voi fa un’esperienza anche minima di vita comune sa bene che essa non è mai data dalla somma delle ricchezze e delle forze di ciascuno ma dalla condivisione delle debolezze e delle fragilità di ognuno. Questa è una legge della vita comune ed è ciò che edifica la vita comune. Nulla è più devastante di una comunità di persone che cercano il proprio io o assommano le forze perché sono ricche di doni, capacità, ecc. Di solito sono delle vite invivibili. [...]
Che cosa richiede la comunità? Vi dico solo alcune cose. Innanzitutto dare ascolto, che mi sembra molto più pregnante di ascoltare. Cosa posso dare a un altro? Pensateci bene, il più delle volte il grande servizio che voi potete fare a un altro è dargli ascolto (questo vale anche in ambito pastorale). Nella vita comune questo è il fondamento della sua edificazione. Questo è il fondamento di una relazione sana con l’altro. Ascoltando io lascio che l’altro sia vivo, sia presente e gli dico: io sono coinvolto con te, io do peso e serietà a ciò che tu sei e che tu dici. Non è semplice dare.[...]
ascolto perché significa uscire dal monologo, smettere di ritenersi detentori della verità, di essere al centro del mondo - quei mali che normalmente la vita comune fa sempre emergere con la sua spietatezza.
Quando si parla di ascolto, biblicamente si intende qualcosa che riguarda tutta la persona, è il cuore, il centro della persona che ascolta. Lì, dunque, avete l’elemento essenziale per l’edificazione di una vita comunitaria. Ascoltando l’altro io lo faccio sentire riconosciuto dunque la comunità può diventare la comunità di coloro che si riconoscono nel senso più pregnante e profondo del termine.
Si tratta non solo di dare del tempo all’altro ma di dare il mio tempo per l’altro. Anche in una dinamica di vita familiare, quante volte occorre che l’uno attenda l’altro, che l’uno si sottometta ai tempi dell’altro! Il tempo è il sacrificio della vita.
In questo senso si può parlare di una forte dimensione di obbedienza nella vita comunitaria anche senza aver fatto i voti. Dare rispetto e ascolto all’altro significa vivere un’obbedienza che è sottomissione all’altro. Il tempo che date ai bambini piccoli, ai figli è una obbedienza profonda.
Chi sono i grandi maestri della vita comune e della vita spirituale? Né i monaci, né quelli che la sanno lunga o ve la stanno a raccontare come me adesso. I maestri della vita comune sono i vecchi, i malati nel corpo e nella psiche, l’antipatico, l’ostile, colui che mi mette il bastone tra le ruote, il nemico. Lì avete davvero un magistero, avete qualcuno che può svelarvi a voi stessi. Mi piacerebbe glossare queste affermazioni assai importanti con tre testi di tre personaggi molto diversi ma che suppongo conosciate abbastanza.
Cosa significa dire che il nemico, l’antipatico, quello che mi crea problemi - potrei essere io nei confronti di un altro! - è il mio grande maestro? Ve lo dico con alcune frasi del Dalai Lama attuale: “I nostri nemici sono i nostri più grandi maestri. E’ quando ci si combatte e ci si critica che noi possiamo accedere alla conoscenza di noi stessi e possiamo giudicare della qualità del nostro amore. I nemici ci permettono di verificare il nostro rispetto e la nostra tolleranza degli altri. Quando i nostri amici sono con noi in buoni e pacifici rapporti, nulla ci può rendere coscienti dei nostri pensieri negativi ma se io ho aiutato qualcuno, se l’ho amato e poi questo mi oltraggia nel modo più ignobile, io posso considerare costui come il mio maestro più grande perché ciò che è in me viene davvero alla luce”.
Il secondo testo riguarda il malato, nel corpo e nella mente. Scrive Jean Vanier che conosce bene e la vita comune e il servizio: “Da un certo numero di anni vivo con uomini e donne in situazioni di bisogno che portano gravi handicap e comincio a prendere coscienza delle barriere che esistono in me. Davanti alla loro esigenza di comprensione, di amicizia, davanti alle loro paure e ai loro atteggiamenti con cui mi mettono alla prova io ho cominciato a cogliere la distanza tra la loro sete di presenza e di sostegno e la mia incapacità a rispondere. Ho toccato con mano le mie barriere e le mie paure. Quando si cerca di accogliere il povero, di ascoltarlo e di rispondere al suo appello, allora si scoprono le nostre barriere, le nostre paure, le nostre aggressività”. Dunque il malato è come un sacramento che può svelare e fare emergere ciò che è in noi, che abita il nostro cuore.
Vi propongo, ora, un testo indiano anonimo. Un vecchio si rivolge a chi lo aiuta e dice: “Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu cominci a darmi dei consigli, tu non fai ciò che ti ho chiesto. Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu senti di dover fare qualcosa per risolvere il mio problema, tu manchi nei miei confronti. Ascolta! Tutto ciò che ti chiedo è che tu mi ascolti, non che tu parli, non che tu faccia qualcosa per me. Ti chiedo unicamente di ascoltarmi. Io posso agire e fare delle cose da me stesso, non sono impotente Sì, sono un po’ stanco, scoraggiato, esitante, vacillante ma non impotente. Quando tu fai qualcosa per me che io stesso posso e ho bisogno di fare, tu contribuisci alla mia paura e accentui la mia inadeguatezza, ma quando tu accetti come un semplice fatto che io senta ciò che sento - fosse anche per dirla con Giobbe, le imprecazioni e le bestemmie, la ribellione, la violenza che emerge - io posso smettere di convincerti e posso tentare di cominciare a comprendere che cosa c’è dietro questi miei sentimenti irrazionali. Quando è chiaro, le risposte diventano evidenti e non ho bisogno di consigli”.
Nella dinamica di una vita comunitaria questi luoghi umani sono luoghi dove veramente emerge chi noi siamo. Lì c’è la sacramentalità della vita comune che vi scortica, che fa emergere quello che voi siete nel profondo e anche ciò che normalmente tendiamo a nascondere e a celare.
Vi può stupire che parlando di vita comune, vi parli ora di silenzio e di solitudine ma, in realtà, il silenzio è spazio di incontro. Due persone che si amano profondamente sanno benissimo che c’è un linguaggio non verbale che comunica tanto, che comunica tutto. Nel silenzio io colgo l’altro, anche colui con cui vivo normalmente, con cui ho relazioni elementari, quotidiane, con cui parlo, ecc. Lo colgo sotto la luce del mistero.
Questa è un’altra regola della vita comune - non sono regole scritte, evidentemente, ma si imparano vivendo la vita comune. Imparo che devo rinunciare a ogni pretesa di potere sull’altro. Solo grazie a questo potrà svilupparsi una vita e una relazione sana. Se in qualche modo, e le maniere sono tante, cerco di attentare alla persona, di avere potere su di lei, io minaccio profondamente la vita comune.
C’è bisogno di relazioni comunitarie sane perché ci possano essere dei rapporti purificati, pieni di sapienza. Ho l’impressione che solo chi sa sostenere la solitudine e il silenzio sa anche vivere in modo equilibrato la relazione. E’ molto faticoso entrare nella solitudine, cercare di ascoltarla, entrare nella vita interiore. Non avrò il tempo di soffermarmici, ma solo chi ha vita interiore può fare vita comune. Chi non ha vita interiore sapete cosa fa oggi? Entra in una setta. Io direi che la setta è la forma aggregativa di chi non ha vita interiore. E’ un po’ duro forse. Ma mi sembra che la rigidità della setta, il dottrinalismo, le verità da ripetere, queste strutture esteriori sono per persone che non sanno da sé darsi una struttura interiore critica, lucida, non sanno avere una vita interiore, quella dialogicità interiore che è essenziale per reggere un rapporto interpersonale e, dunque, una vita comune.
Un altro elemento essenziale perché possa esistere la comunità come circuito di donazione (donare ascolto, donare tempo, dare spazio al silenzio e alla solitudine) riguarda la parola.
Non è facile vivere in modo equilibrato l’arte del parlare. Non è facile imparare a parlare e a parlare con gli altri, a parlare in mezzo agli altri - quando si tratta di moderare chi tende sempre a fare i comizi, di incitare chi tende sempre a scantonare e a nascondersi, ecc. Ebbene qui si gioca qualcosa di vitale: il tipo di comunicazione che avete. La vita comune in buona parte è vita di comunicazione e poiché la buona qualità di una vita è data dalla buona qualità delle relazioni e questa, a sua volta, è data dalla buona qualità della comunicazione, questo è un punto su cui c’è molto da riflettere.
Innanzitutto, comunicare è sempre un rischio. Capirà l’altro quello che sto dicendo? L’altro magari non sa. Io sono arrivato qui stasera, l’ho saputo all’ultimo momento, ma io arrivo con un retroterra e quando parlo, parlo anche del mio. Anche parlassimo della teologia trinitaria o dello sbarco sulla luna degli astronauti, in qualche modo parliamo anche di noi, di quel che siamo, di quello che siamo diventati. Riuscirò a raggiungere l’altro? L’altro riuscirà a capirmi oppure no? Comunicare è sempre rischiare il fraintendimento, il non essere compresi.
Su questo tema c’è molto da riflettere anche perché sappiamo dagli studi di scienze delle comunicazioni che quando parliamo non è il contenuto della parola anzitutto che colpisce. Il volume più grosso di comunicazione è dato dalla gestualità, dal corpo, dallo sguardo, dal movimento, ecc. E’ il linguaggio corporeo che comunica. La seconda cosa è il timbro della voce, la modulazione, la velocità. Da ultimo il contenuto concreto di ciò che diciamo. Dunque, che noi lo vogliamo o no, noi sempre comunichiamo, sia che stiamo in silenzio, che parliamo, che agiamo, sempre diciamo qualcosa.
Qualcuno affermava che l’uomo è strutturato in tre parti: corpo, anima e vestito. Già con il vestito c’è un livello di comunicazione con cui io mi relaziono agli altri. Come il vestirsi è qualcosa di propriamente umano - gli animali non si vestono - dice già molto il modo in cui ci vestiamo.
Perché ci sia una comunicazione equilibrata occorre creare un clima di libertà. Io vedo, per esempio, che normalmente nella chiesa questo non c’è, non c’è la possibilità di dire, di interrogare perché si ha paura delle conseguenze, è una libertà a scartamento ridotto.
Occorre creare un clima di libertà affinché ci possa essere comunicazione e dunque relazione. Stando attenti ai tanti rischi della comunicazione: la comunicazione di tipo psicologico (“mi sembra, mi pare”) che non sa dire “pane al pane e vino al vino”, che non sa dire “sì sì no no” ma tenta di coinvolgere l’altro a volte in una complicità contro un terzo; la comunicazione aggressiva, in cui più o meno si viene alle mani. Non vi stupisca ma mi è capitato di vedere anche in ambiti di comunità religiosa episodi simili. Io ricordo che a 16-17 anni lessi un romanzo che parlava della vita in un monastero e rimasi esterrefatto quando mi mostrò due monaci che si pigliavano a pugni. Me lo ricordo ancora adesso però adesso capisco che è un livello di comunicazione possibile, anche se non particolarmente evangelico! Pensate al tipo di comunicazione di chi ha autorità: “bisogna fare... dobbiamo... si deve...”. Questo tipo di comunicazione moralistica non è particolarmente felice e neppure efficace.
Nel mio rapporto con l’altro, e soprattutto nella vita comune e nella chiesa, occorre una ascesi della comunicazione, cioè esercitarsi a un modo di comunicare che già faccia sentire l’altro accolto e amato. San Basilio in una sua regola si sofferma a parlare del tono della voce che già può far sentire uno o accolto o respinto irrimediabilmente. Se vi rivolgete a una persona in modo molto freddo, voi capite che è come se chiudeste una porta di bronzo davanti a lei che non si aprirà mai più per l’eternità. Già il modo e il tono della voce può incanalare verso la relazione oppure verso il rifiuto. Si tratta di apprendere una ascesi, un esercizio per differenziare le relazioni e i modi di comunicare. Con i bambini piccoli, con quelli un po’ più grandi, con gli anziani - i livelli vanno evidentemente differenziati. Io vedo che spesso non è un’arte facile da apprendere ma è certamente indispensabile.
è certamente indispensabile. Io credo che la vita comune si basi su un fondamento umano molto semplice: io non esisto senza l’altro, io non esisto senza un “tu”. Io sono un volto preciso, inequivocabile e sono un nome preciso. Il mio nome e il mio volto è ciò che l’altro vede e chiama. Ciò che è più mio ce l’ha l’altro, mi rimanda fuori di me. Io non esisto senza un “tu”. Io ho bisogno dell’altro per vivere. Io non sono senza l’altro.
Uno dei fondamenti antropologici ineliminabili per tutti quelli che si cimentano in questa realtà è che la vita comune è una spietatissima epifania del negativo che c’è in ciascuno. Una persona, se vuole fare vita comune - altrimenti diserta, si nasconde, si imbosca, se ne va - è obbligata a fare un cammino di riconoscimento e accettazione dei propri limiti. Senza questo non c’è vita comune ma non c’è neanche vita familiare o diventa un piccolo inferno. Solo grazie all’accettazione dei limiti precisi, non generici, che mi abitano - di tipo affettivo, psicologico, intellettuale, ecc. posso arrivare anche ad accettare gli altri.
Senza questa accettazione dei miei limiti io non accetterò i limiti che gli altri hanno e che gli altri sono. Sarebbe molto stupido pensare che l’altro è sempre solo bello, dolce, un dono per me. L’altro è un limite oggettivo. E’ un discorso molto banale ma vero: sperimentando l’altro, sperimentiamo un limite. Bonhoeffer direbbe nel suo splendido libro sulla vita comune: “Finché non ho sperimentato l’altro come un peso da portare, io non sono suo fratello”. Bonhoeffer lo dice commentando “portate i pesi gli uni degli altri” del testo paolino. Assunto l’altro come limite io posso anche arrivare a sperimentarlo come dono, a vederlo trasfigurato.
Dovrete saper assumere la vita comune come epifania: nel fare concretamente vita comune viene rivelato a voi stessi e anche agli altri quali sono le vostre negatività ma anche ciò che vi sta a cuore profondamente, qual è il fine che perseguite e a che cosa appartenete. Credo, quindi, che possiate comprendere come sia essenziale per chi fa vita comune un cammino di vita interiore, di vita spirituale.
Con questo lavoro di conoscenza di sé e dei propri limiti e di conoscenza di sé come amati da Dio non nonostante ma nei nostri precisi limiti è possibile sperimentare la comunità come luogo di guarigione. E’ un’altra espressione che trovate molto frequentemente in Jean Vanier. Comunità di guarigione non perché si mettono in atto chissà quali tecniche terapeutiche ma proprio perché si vive una vita comunitaria che può riscattare storture, magagne psicologiche o affettive che ci portiamo dietro. La vita comune è un’occasione di riscatto, è una possibilità offerta in cui la gratuità dei rapporti può redimere delle slogature che ognuno di noi ha.
Per andare in profondità nella vita comune, sviluppando una vita interiore, una dialogicità interiore, arrivando a pensare agli altri quando gli altri non ci sono, arrivando a intercedere per gli altri, ecc. occorre quella ascesi della pazienza che è l’arte di vivere l’inadeguatezza e l’incompiutezza dell’altro ma anche mia. Tante volte vediamo che noi stessi siamo inadeguati e non corrispondenti a ciò che è la nostra umanità e la nostra vocazione o ministero. La pazienza è l’arte di sopportare - nel senso di mettersi sotto e portare sulle proprie spalle - l’inadeguatezza, l’incompiutezza dell’altro e anche mia.
La vita comune, poi, chiede una ascesi dell’attesa. Quante volte si vorrebbero affrettare i tempi di una decisione e occorre invece attendere i tempi dell’altro. Dire una parola magari anche giusta ma in un momento in cui l’altro non la può recepire, può essere nefasto, letale. E’ un’arte difficile, per nulla puramente passiva come ci dice l’etimologia ad tendere. L’attesa è qualcosa di eminentemente positivo. E’ il livello spirituale dell’agire, è un’azione spirituale che si prepara a influire non tanto sull’immediato ma sul futuro.
Da ultimo la vita comune vi chiede una ascesi della perseveranza e della fedeltà. Anche queste sono due realtà difficili da coniugarsi oggi ma essenziali, che investono il rapporto con il tempo e con l’altro.
Soprattutto la vita comune è il luogo del perdono [...] Nel perdono io dico a te che hai compiuto questo atto, che hai ferito la mia fedeltà, il mio amore: ebbene io non voglio ridurti all’atto che hai compiuto. Credo che tu sei molto più grande della tua azione, faccio un’apertura di credito grande verso di te e voglio che la relazione con te continui pur attraverso questa ferita che è stata inflitta.
Nel perdono io sono chiamato ad assumere, a pagare per l’altro, a portare le conseguenze del male che l’altro ha fatto, o almeno a condividerle con lui. Per esercitare la correzione fraterna occorre molta molta libertà e maturità interiore e grande fede per vedere se si è capaci di dare e ricevere perdono.
Questo ultimo punto è certamente uno di quelli che più vi può mostrare la valenza sacramentale della vita comune.
Fonte: Comunità e Famiglia
Grazie sopratutto della bella riflessione sul concetto di che io credo che in questi ultimi tempi manca molto nell'ambito cristiano,oggi siamo arrivati ad un punto che ogni uno tira l'acqua per il suo proprio mulino.Io personalmente sto vivendo da anni in una situazione di disagio economico e non riesco a trovare la via di uscita.Sono 10anni che vivo nei debiti e pur facendo parte di una chiesa evangelica quando espongo questi problemi non mi sento dire altro,non ti preoccupare Dio provvederà .io dico e vero Dio può tutto ma nei vangeli e scritto che quando uno conosce i bisogni del proprio fratello non basta dire solamente "Dio ti benedica" ma vai e cerca di poter risolvere il problema del fratello.non voglio essere lungo se e possibile ma sto cercando con l'aiuto del Signore fratelli che mi possono dare un vero consiglio divino di come poter trovare la libertà dai debiti .se e possibile aiutatemi Dio vi benedica .Questo e il mio numero di cell. 340 56 62 905.grazie.
siate dono caritatevole d'amore
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