Il genocidio silenzioso
di Alessandro Michelucci
A tutti i popoli dovrebbe essere garantito il diritto di vivere senza lo spettro del genocidio. Eppure agli indigeni non è riconosciuto questo diritto e vengono spazzati via attraverso torture, assassini, carestie programmate. E' proprio questo il loro destino?
La morte di Virginia Choquintel, avvenuta qualche mese fa a Rio Grande, segna la fine di un tribù, gli Ona, con novemila anni di storia. Capita di nuovo ciò che è già successo con gli indigeni della Terra del Fuoco (Argentina): il dover registrare la scomparsa dell'ultimo esemplare. Addio ultima Ona.
In origine la Terra del Fuoco era abitata da quattro tribù: gli Haush (mangiatori di alghe); gli Onas e gli Yamanas (esperti canoisti); gli Alakaluf. Nel secolo scorso, però, colonizzazione e epidemie decimarono le tribù, sino alla scomparsa totale.
Tutto ciò ripropone in materia drammatica l'atteggiamento di noi cosiddetti civilizzati nei confronti di quei popoli che amiamo definire primitivi, solo perché sono colpevoli di farsi portatori di un'altra cultura.
C'è proprio bisogno di una riflessione più approfondita. Mentre il secolo si avvicina alla fine vengono meno una dopo l'altra le speranze che erano state formulate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il ripudio della guerra, del colonialismo e la fiducia in un diritto internazionale che potesse costituire un'alternativa al diritto del più forte appaiono finalmente per quello che sono: un sogno che è durato cinquant'anni e dal quale ci stiamo svegliando. Un risveglio così duro che molti cercano ancora di rinviarlo, ma è solo questione di tempo, perché prima o poi la realtà sarà troppo evidente per poter continuare a negarla.
Sepolcri imbiancati
Quello che è più duro, però, non consiste nel dover ammettere che ci siamo illusi, quanto nel dover ammettere che questo è accaduto perché la guerra, il colonialismo e l'oppressione non erano mai finiti. Non solo, ma che in questi anni sono riusciti a sviluppare una capacità mimetica che ne ha garantito al tempo stesso la sopravvivenza e la capacità di operare in piena libertà.
Uno degli esempi più evidenti lo fornisce il colonialismo: oltre a non essere finito è stato riprodotto in modo spietato proprio dalle ex colonie: basti pensare alla tragedia di Timor Est, l'ex colonia portoghese invasa dall'Indonesia nel 1975 e annessa l'anno successivo.
Il tema sul quale vogliamo soffermarci in modo più dettagliato è l'aggressione silenziosa, ma devastante, che colpisce nei modi più svariati i popoli indigeni del pianeta: basti pensare alla lotta disperata di quelli che combattono contro le multinazionali del petrolio e del legno, contro gli esperimenti nucleari e le loro spaventose conseguenze, contro l'ingegneria genetica che vorrebbe trasformarli in cavie umane.
Tutti questi problemi, di cui molti difensori dei diritti umani continuano a disinteressarsi nel modo più totale, erano già evidenti nel 1982, quando alcune associazioni indigeniste nordamericane organizzarono la conferenza Native Resource Control and the Multinational Corporate Challenge: Aboriginal Rights in International Perspective (Washington, 12-15 ottobre 1982). Da allora sono passati 17 anni ma il documento finale rimane attualissimo, perché evidenzia i pericoli del "progresso" e dello "sviluppo" e ci ricorda, se ancora ce ne fosse bisogno, che gli indigeni non sono curiosi resti del passato, ma uomini e donne che lottano per avere un futuro.
Sfruttamento delle risorse petrolifere
Nel novembre del 1995 la notizia dell'impiccagione dello scrittore Ken Saro-Wiwa da parte del governo militare nigeriano portò alla luce la tragedia degli Ogoni: 500.000 persone che vivono nel sud dello stato africano, sul delta del Niger. Il 95% delle esportazioni nigeriane è costituito dal petrolio, che venne trovato ancora prima dell'indipendenza (1958) e da allora svolge un ruolo centrale nell'economia del paese. Molti giacimenti si trovano nel Rivers State, ed in particolare nella regione abitata dagli Ogoni. Ed è proprio da questo che nascerà la loro tragedia. Lo sfruttamento selvaggio del suolo produce mutamenti ambientali profondi: i fiumi e l'aria sono avvelenati dall'ossido di carbonio, le perdite di petrolio producono inquinamenti ovunque. La terra degli Ogoni è un gigantesco acquitrino di fango e petrolio. A questo va aggiunto che da sempre la regione viene considerata un limone da spremere senza che gli indigeni ne traggano il minimo vantaggio economico.
Lo stesso destino che tocca a molti popoli indigeni sparsi per il globo.
Negli anni Ottanta il malcontento diviene vera e propria resistenza civile fino a coagularsi nel Movement for the Survival of the Ogoni People (Mosop), fondato nel 1990 dallo scrittore Ken Saro-Wiwa, che si impone velocemente come la voce della resistenza Ogoni. Il bersaglio della lotta non violenta di Saro-Wiwa sono le multinazionali petrolifere, prime fra tutte la Shell, responsabili dell'ecocidio che si sta consumando nella terra della minoranza africana.
L'impegno dello scrittore Ogoni e del suo movimento guadagnano l'attenzione mondiale anche grazie al sostegno di un altro scrittore nigeriano, il Nobel Wole Soyinka, che nei primi anni Novanta denuncia la pulizia etnica realizzata dal regime militare contro gli Ogoni. La Shell e le altre compagnie petrolifere hanno infatti richiesto l'intervento dell'esercito affinché neutralizzasse la resistenza locale: una richiesta che il governo militare ha soddisfatto con la massima solerzia.
Intanto Saro-Wiwa scrive, parla, viaggia per far conoscere al mondo la tragedia del suo popolo. Nel 1992 esce il suo libro Genocide in Nigeria: The Ogoni Tragedy, e lo scrittore entra così nel mirino dei generali. Pochi mesi dopo presenta al governo nigeriano l'Ogoni Bill of Rights, un documento politico che chiede l'autonomia regionale e un parziale controllo delle risorse naturali.
In Europa, intanto, Saro-Wiwa trova l'appoggio dei movimenti ambientalisti, Greenpeace in testa, e delle associazioni per la difesa delle minoranze, in particolare della Gesellschaft für bedrohte Völker (Associazione per i Popoli Minacciati) e dell'Unpo (Unrepresented Nations and Peoples Organization). Nella primavera del '95 è imprigionato insieme ad altri otto ambientalisti.
A nulla valgono le iniziative e le pressioni internazionali per salvarli: il 10 novembre, dopo un processo farsa, Saro-Wiwa e gli altri vengono impiccati. Lo sdegno mondiale esplode prontamente, ma al posto delle solite condanne formali e di tanti paroloni ad effetto sarebbe forse meglio fare una riflessione. Ken Saro-Wiwa è morto perché era e voleva restare un Ogoni. Non voleva essere un nigeriano (e perché, poi). Lottava per una terra, una lingua, una cultura: in una parola, per un'identità. I generali nigeriani l'hanno ucciso proprio per questo.
Ma la sua lotta continua: oggi esistono sedi del Mosop in Gran Bretagna, negli Stati Uniti ed anche in Italia, a Roma, dove Komene Famaa ha ottenuto asilo politico e cerca di mobilitare l'opinione pubblica su questa tragedia dimenticata, alla quale si affiancano tragedie analoghe in Amazzonia e in altre parti del mondo.
La guerriglia contro gli indigeni
L'assalto dell'ambasciata giapponese a Lima, compiuto nel dicembre del '96 dal Mrta (Movimiento Revolucionario Tupac Amaru), non è passato inosservato in Italia: i primi a manifestare solidarietà sono stati i vari comitati filozapatisti sparsi per la penisola. La loro simpatia per le azioni dei guerriglieri peruviani era una cartina di tornasole. Piuttosto che solidarizzare con una delle tante lotte indigene della Terra, come avrebbe imposto l'ostentato indigenismo dei filozapatisti, questi non hanno trovato di meglio che sposare la causa di un gruppo terrorista, sicuramente anche perché ammaliati dalla professione di fede marxista che proviene dai guerriglieri peruviani. Probabilmente non sapevano che l'oggetto della loro ammirazione era quello stesso Mrta che nel dicembre 1989, dopo un "processo" sommario, aveva ucciso Alejandro Calderon, capo degli Ashaninka.
La storia della lunga guerra non dichiarata fra movimenti armati e popoli indigeni dev'essere ancora scritta. In questa sede vogliamo limitarci a raccogliere alcuni episodi recenti. Pensiamo anzitutto ai popoli della Costa Atlantica del Nicaragua (Miskitu, Sumu e Rama), per lungo tempo massacrati dai sandinisti, ai quali va comunque dato atto di aver poi cambiato atteggiamento in modo radicale. Ben più sanguinosa e duratura l'aggressione che Sendero Luminoso ha portato avanti per lunghi anni contro i popoli andini (Quechua, Kolla, Aymara).
Episodi analoghi si verificano sporadicamente anche in India, dove i guerriglieri naxaliti (di orientamento marxista-leninista) uccidono i fuoricasta e gli Adivasi (i popoli originari della federazione). Come si noterà questa veloce analisi si concentra sui movimenti armati di estrema sinistra. Su quelli di opposto segno politico non vale la pena soffermarsi, visto che la loro azione devastante è implicita nell'ideologia autoritaria che le ispira e come tale non ha bisogno di essere dimostrata.
E' a sinistra, invece, che molti continuano a farsi illusione sul potenziale "rivoluzionario" di movimenti armati che oggi, in seguito ai mutamenti geopolitici dell'ultimo decennio, devono finanziarsi col traffico di armi e droga. Con buona pace degli ideali che cercano di spacciare con l'uso di certe sigle, buone forse a sedurre il progressista europeo, ma non l'indigeno che non può accettare di morire in ossequio a certi ideali.
Colonialismo nucleare
Le imponenti manifestazioni antinucleari del 1995, organizzate dopo la decisione francese di realizzare nuovi esperimenti nel Sud Pacifico, hanno finalmente fornito un'occasione per denunciare una realtà a lungo ignorata: il fatto che la maggioranza degli esperimenti nucleari sia sempre stata realizzata in territori abitati da popoli indigeni.
Naturalmente la scelta non è casuale, ma deriva da vari fattori facilmente individuabili: si tratta in genere di territori desertici, come in Australia e negli Stati Uniti; di regioni abitate da popoli che non hanno accesso alle grandi fonti d'informazione, e che quindi sono generalmente ignorati. A questo silenzio che si traduce in complicità involontaria cerca di opporsi un'associazione tedesca, il World Uranium Hearing, fondata negli anni Ottanta da Claus Biegert, autore di alcuni libri sugli Indiani d'America.
Ma un fattore più rilevante, che purtroppo sfugge spesso, è un altro: la maggior parte dei territori in questione sono colonie di fatto (le Hawai o il deserto siberiano) o di diritto (la Polinesia francese o il Tibet).
Non è difficile vedere il legame fra colonialismo ed esperimenti nucleari: ciascuno legittima l'altro, se così si può dire, e garantiscono la sopravvivenza di quel colonialismo europeo che conta ancor oggi una trentina di possedimenti, per un totale di 9.000.000 di abitanti.
E stiamo parlando di sei paesi (Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo e Spagna) che fanno parte dell'Unione Europea e che non perdono occasione per salire in cattedra a dare lezioni di democrazia e diritti umani al mondo intero.
Non è quindi un caso se a Papeete la lotta contro gli esperimenti francesi e quella per l'indipendenza sono tutt'uno. In Italia, a differenza di quanto accade in altri paesi europei, c'è ancora un'attenzione molto scarsa verso il colonialismo nucleare: nelle stesse manifestazioni contro i nuovi esperimenti francesi questo importante aspetto della questione è spesso rimasto in ombra. Con ogni probabilità il disinteresse deriva da una distorta percezione dei popoli indigeni, ora visti come dei "primitivi" da civilizzare, ora come dei graziosi oggetti colorati - ma in sostanza dei ruderi viventi.
Grazie a tanti diffusi stereotipi risulta facile non vedere gli esperimenti che negli ultimi 50 anni hanno devastato le terre dei Western Shoshone, nel deserto del Nevada; quelle dei Ciukci e degli Evenki, in Siberia; quelle dei Tuareg, nel Sahara algerino; quelle dei Maohi, nella remota Polinesia francese; quelle degli Uiguri, la minoranza turcomanna che vive nello Xinjang, la regione autonoma della Cina occidentale dove Pechino ha realizzato vari esperimenti fra il 1995 ed il 1996. Terre e popoli contro i quali, nel nome del "progresso" e dello "sviluppo", viene portata avanti da troppo tempo un'aggressione silenziosa e devastante.
La tragedia dei bambini rubati
Un problema altrettanto grave è quello che riguarda l'aggressione dell'infanzia. Nel maggio del 1997, in Australia, è stato pubblicato il rapporto della Commissione federale che era stata incaricata di svolgere un'inchiesta sul trasferimento coatto di bambini aborigeni operato in modo sistematico fra gli anni Dieci e gli anni Settanta. Durante questi decenni, infatti, migliaia di piccoli aborigeni erano stati forzatamente sottratti alle rispettive famiglie e rinchiusi negli orfanotrofi, con il proposito di "farne dei bianchi". Praticamente nessuna famiglia era scampata a una tragedia autorizzata da precise leggi federali ed alla quale avevano dato un contributo determinante anche molti religiosi. Il rapporto, accusa il governo federale di genocidio, chiede un adeguato risarcimento per le vittime.
Nessuno, comunque, vuole assumersi la pesante responsabilità che deriva da misure così ripugnanti. Anzi, c'è addirittura chi afferma che tutto questo fu fatto "nell'interesse dei bambini". Il dibattito ferve, ma il governo rifiuta categoricamente di pagare un risarcimento alle famiglie interessate.
Qui da noi tutto ciò è ancora sostanzialmente sconosciuto: qualche tempo fa alcuni giornali ne hanno parlato, ma poi la cosa è caduta nel dimenticatoio. Purtroppo l'Australia è lontana e i diritti dei popoli indigeni stentano ad essere considerati parte integrante di quei diritti umani di cui si fa grande sfoggio verbale.
Conclusione
E' evidente che non possiamo fornire un panorama completo dei pericoli che minacciano la sopravvivenza fisica e culturale dei popoli indigeni in poche righe, ma mantenere la memoria di tanti soprusi ci pare insopprimibile. Su alcuni di questi, come lo sfruttamento promosso dall'ingegneria genetica e lo squallido business realizzato dalla New Age, parleremo più ampiamente in futuro.
Il modo migliore per chiudere questo breve panorama sta nel lasciare la parola a loro stessi, riproducendo la parte più importante del documento che chiudeva la conferenza Native Resource Control and the Multinational Corporate Challenge: Aboriginal Rights in International Perspective (Washington, 12-15 ottobre 1982):
Noi, popoli indigeni, vogliamo dare il nostro contributo per un mondo migliore. Siamo offesi dal comportamento degli stati nazionali, che ignorano i più elementari diritti dei popoli, che molto spesso sono popoli indigeni. A tutti i popoli dovrebbe essere garantito il diritto a vivere senza lo spettro del genocidio. I governi della Terra non ci riconoscono come popoli, e questo porta ai più spaventosi crimini ed alle peggiori violazioni dei diritti umani. Parliamo di torture, assassinii, arresti arbitrari, carestie programmate, spoliazione delle terre. E' proprio questo il nostro destino? I popoli indigeni della Terra devono davvero essere spazzati via? Per noi quello che viene chiamato progresso significa necessariamente genocidio?
Per contatti: Associazione per i Popoli Minacciati, cp 6282 - 50127 Firenze tel 055 485927 fax 055 480236. E-mail: [email protected]
Da aamterranuova.it